Il socio di società estinta non può opporsi all’accertamento per utili non percepiti

Ieri la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25108 ha confermato il principio secondo cui, se la società di capitali che ha presentato ricorso contro l’avviso di accertamento si cancella dal Registro delle imprese a processo pendente, il processo prosegue nei confronti dei soci anche se non hanno riscosso nulla da bilancio finale di liquidazione. Ciò in quanto l’Erario ha interesse, in ogni caso, a ottenere un titolo esecutivo da far valere, eventualmente, nei confronti dei soggetti fiscalmente responsabili non solo ai sensi dell’art. 2495 del codice civile ma anche dell’art. 36 del DPR 602/73.

L’aspetto interessante consiste nel fatto che, secondo i giudici, “resta salva ogni questione sull’effettivo percepimento di detti utili, che potrà essere posta solo in sede di riscossione, con conseguente mancanza di interesse del socio a far valere, in questa sede, le questioni di ripartizione dell’onere probatorio avanzate con il secondo motivo”.

Come spesso accade quando si tratta di effetti tributari della cancellazione della società dal Registro delle imprese, la questione non è facile da risolvere.
L’art. 2495 del codice civile sancisce che i soci rispondono solo se e nella misura in cui hanno riscosso somme da bilancio finale di liquidazione.
È vero che il socio, se non ha riscosso nulla, non risponde di nulla, ma è del pari vero che se si ammettesse che, a causa di ciò, il processo sia estinto automaticamente per cessata materia del contendere, l’Erario rischierebbe di essere privato di ogni tutela quand’anche ci fossero altri soci potenzialmente da escutere, oppure quando sia possibile azionare la responsabilità del liquidatore ai sensi dell’art. 36 del DPR 602/73.

Non è un caso che il legislatore sia corso ai ripari con l’art. 28 comma 4 del DLgs. 175/2014, in base al quale ai fini degli atti di accertamento, di riscossione, di liquidazione e del contenzioso, l’estinzione della società ha effetto decorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal Registro delle imprese.
Se si può accettare che il Fisco abbia in ogni caso interesse a ottenere un titolo esecutivo sebbene non ci siano apparentemente soggetti responsabili ai sensi dell’art. 2495 del codice civile, desta perplessità affermare che il socio il quale succede nel processo instaurato in origine dalla società non possa eccepire la violazione del menzionato art. 2495 c.c.

La necessità che, ai fini della successione nel processo occorra la dimostrazione che il socio abbia riscosso somme da bilancio di liquidazione potrebbe tuttavia essere oggetto di esame ad opera delle Sezioni Unite (Cass. 14 marzo 2023 n. 7425). I giudici, nel rimettere la questione, hanno anche sollevato il problema derivante dal fatto che se il socio volesse eccepire di non aver riscosso somme dovrebbe integrare i motivi di ricorso, cosa vietata dall’art. 24 del DLgs. 546/92.

Tornando alla sentenza di ieri, bisogna domandarsi cosa significa, esattamente, che il socio può eccepire l’assenza di responsabilità in sede di riscossione. Bisogna attendere la cartella di pagamento, che peraltro in molti casi non esiste considerato che vige il sistema dell’accertamento esecutivo? Oppure bisogna “sperare” di essere raggiunti da un atto esecutivo vero e proprio come il pignoramento o da una misura cautelare come il fermo o l’ipoteca?
Molto meglio, a nostro avviso, fare in modo che già nel processo instaurato dalla società sia sollevabile l’eccezione, ferma la necessità di tutelare le ragioni erariali.

Principio dai contorni variegati

Il socio che succede nel processo, o che impugna un atto intestato alla società, deve comunque contestare il merito della pretesa. Su questo tema ci sono pochi precedenti (si veda la Cass. 5 novembre 2021 n. 31904 secondo cui ove l’accertamento in capo alla società sia definitivo, il merito non può più essere censurato dal socio).

Rammentiamo infine che, nel sistema attuale ove vige l’art. 28 comma 4 del DLgs. 546/92, il problema assume connotati diversi, posto che se la società si cancella a processo instaurato alcuna interruzione del processo si può verificare, almeno per i cinque anni successivi alla richiesta di cancellazione.

Assegnazioni e cessioni agevolate con differenti effetti in capo al socio

Le operazioni agevolate di assegnazione e cessione dei beni ai soci di cui all’art. 1 commi 100-105 della L. 197/2022 comportano differenti effetti in capo ai soci con riferimento al valore fiscale dei beni assegnati (o ceduti).

In particolare, nell’ambito delle operazioni di assegnazione agevolata, l’Agenzia delle Entrate aveva chiarito che il valore del bene assunto ai fini fiscali dal socio assegnatario è il medesimo di quello adottato dalla società nella determinazione dell’imposta sostitutiva sulla plusvalenza realizzata: in questo senso si era espressa nella C.M. 21 maggio 1999 n. 112 (cap. I, Parte II, § 4.3), il cui orientamento è stato confermato nella più recente circ. 1 giugno 2016 n. 26.
Pertanto, laddove la società abbia calcolato l’imposta sostitutiva dell’8% o del 10,5% sulla plusvalenza determinata assumendo il valore normale ex art. 9 del TUIR, lo stesso deve essere assunto dal socio nella determinazione delle (eventuali) successive plusvalenze o minusvalenze.
Laddove, invece, la società abbia determinato la plusvalenza assumendo il valore catastale, lo stesso costituisce il nuovo costo fiscale in capo al socio ai fini delle successive plusvalenze o minusvalenze.

Diversamente, nell’ambito delle operazioni di cessione agevolata, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il costo fiscalmente riconosciuto del bene in capo al socio (cessionario) deve essere pari al corrispettivo pattuito, indipendentemente dal valore utilizzato dalla società nella determinazione della plusvalenza assoggettata a imposta sostitutiva (così si sono espresse le circ. n. 26/2016 e n. 37/2016).

Trattasi, con tutta probabilità, di un’interpretazione volta a scoraggiare le cessioni agevolate effettuate a corrispettivi inferiori al valore catastale, la quale comporta, tuttavia, fenomeni di doppia imposizione su una parte di valore del bene, in considerazione del fatto per cui il valore catastale rappresenta proprio il minimo valore cui attenersi nell’operazione di cessione agevolata (art. 1 comma 102, secondo periodo, della L. 197/2022).

Si pensi, ad esempio, ad un’operazione di cessione agevolata di un bene avente costo fiscalmente riconosciuto di 90.000 euro, valore normale di 250.000 euro e valore catastale di 165.000 euro, effettuata ad un corrispettivo di 150.000 euro.
La società assoggetta all’imposizione sostitutiva la plusvalenza fiscale di 75.000 euro, determinata dalla differenza tra il valore catastale (valore minimo da assumere a questi fini se il corrispettivo, come nell’esemplificazione, è inferiore) e il costo fiscalmente riconosciuto del bene.

Il socio, stando all’interpretazione fornita dalla prassi, nell’ipotesi di una successiva vendita dello stesso bene al prezzo di 200.000 euro, realizzerebbe una plusvalenza di 50.000 euro, dovendo assumere quale nuovo costo fiscale del bene il corrispettivo della cessione agevolata (150.000 euro), anziché il valore catastale (165.000 euro) utilizzato dalla società, che porterebbe ad una plusvalenza di 35.000 euro.Ripartenza del quinquennio dalla data di assegnazione

L’assegnazione e cessione agevolate determinano, inoltre, in capo ai soci assegnatari (o cessionari) l’acquisto a titolo originario del bene, comportando per i soggetti non imprenditori l’interruzione del quinquennio rilevante per le plusvalenze immobiliari ex art. 67 comma 1 lett. b) del TUIR.
Se, quindi, il socio decide di vendere il bene immobile nei cinque anni successivi all’operazione, lo stesso realizzerà una plusvalenza imponibile.

Nell’ambito dell’assegnazione agevolata, quindi, la scelta tra valore normale e catastale dovrà essere valutata anche sulla scorta delle intenzioni del socio rispetto a una successiva vendita dell’immobile (se queste intenzioni sono concrete e, soprattutto, attuali, l’assunzione del valore normale è in genere una scelta maggiormente favorevole nell’economia complessiva dell’operazione).

Su questo profilo, inoltre, l’Agenzia delle Entrate (ris. 17 ottobre 2016 n. 93) ha chiarito che non sussiste abuso del diritto in ipotesi di cessione di immobili effettuata dal socio successivamente all’assegnazione agevolata, godendo di un’imposizione calcolata sulla sola differenza tra il prezzo pagato dal terzo acquirente e il valore di assegnazione (o, addirittura, senza scontare tassazione).

L’operazione agevolata di trasformazione in società semplice, invece, non comporta alcuna interruzione del periodo di possesso dei beni e non determina, quindi, l’interruzione del quinquennio rilevante per le plusvalenze immobiliari.
Così, se all’atto della trasformazione la società deteneva gli immobili da almeno cinque anni, nella successiva cessione non si realizzano plusvalenze tassabili.

Irap non dovuta per il professionista che svolge attività diversa da quella della società di cui è socio

Non è dovuta l’Irap a carico del professionista (nel caso di specie medico) sulle attività diverse da quelle dello studio o della società di cui è socio. Non può avvalersi di una struttura che svolge un lavoro diverso, nel caso di specie diagnostico mentre il medico era specializzato in medicina del lavoro.
Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con ordinanza 21357 del 6 luglio 2022, ha respinto il ricorso dell’Agenzia delle entrate che aveva chiesto il pagamento dell’Irap a un medico legale socio e amministratore di un poliambulatorio.


Confermata dunque la pronuncia della Ctr che aveva accolto l’appello del contribuente. Secondo i giudici di appello, infatti, l’attività della società (di cui il contribuente era socio al 33% nonché legale rappresentante) e quella del contribuente erano differenti in quanto mentre il contribuente svolge attività di medico del lavoro e in tale sua qualità si reca nei luoghi di lavoro ad effettuare le visite senza usufruire
delle strutture del suddetto Centro mentre il Centro svolge attività di prevenzione, informazione, formazione degli addetti responsabili delle singole aziende e, in quanto poliambulatorio autorizzato, esami di laboratorio e diagnostica, cosicché appare corretto l’assunto che la corresponsione di compensi da parte della società al contribuente depone per l’assenza di autonoma organizzazione.


A sostegno della decisione la Cassazione ricordato che in tema di Irap, il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione ricorre quando il contribuente sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell’impiego di un collaboratore che esplichi mansioni meramente esecutive (cfr. da ultimo Cass. 9071/2021 e 28329/2021).


Nel caso di specie era emerso che l’attività svolta dal medico era diversa da quella svolta dal centro diagnostico per cui appare corretto l’assunto che la corresponsione di compensi da parte della società al contribuente depone per l’assenza di autonoma organizzazione giacché, se il contribuente si avvalesse delle strutture della società per l’esercizio della professione medica, dovrebbe egli corrispondere somme e non riceverle in pagamento.


Infine la disponibilità di uno studio professionale per lo svolgimento dell’attività non costituiva indice di una autonoma organizzazione perché tale studio è riferibile a un soggetto terzo e da quest’ultimo organizzato: di conseguenza il contribuente non era, sotto qualsiasi forma, il responsabile di una organizzazione essendo invece inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità.