Equo compenso: necessario il coordinamento con il Codice degli appalti

È sempre vivo l’interesse attorno all’equo compenso, per la portata innovativa dell’applicazione concreta di princìpi generali, in realtà da sempre presenti nel nostro ordinamento e riconducibili finanche alla Costituzione, con gli artt. 35 e 36, tradotti nelle esigenze di adeguatezza e decorosità del compenso dal codice civile (art. 2233 c.c.), e da ultimo attuati con la legge 49/2023, che oltre a prevedere una disciplina quanto più possibile organica della materia, ne estende l’applicazione, con i relativi obblighi, in maniera inequivoca alla pubblica amministrazione.

In particolare, di recente, è emersa l’esigenza del coordinamento tra le nuove norme in materia di equo compenso ed il Codice degli appalti pubblici (D.Lgs. 36/2023). Il tema riguarda in particolare la necessità di conciliare l’inderogabilità della misura individuata quale compenso equo per il professionista, e gli effetti di tale limite in caso di appalti pubblici che contemplino la prestazione di un professionista, la cui possibilità di presentare offerte al ribasso è condizionata dall’applicazione delle norme recate dalla legge 49/2023. La necessità di una soluzione è evidentemente centrale, per l’importanza di individuarne una che, senza irrigidire eccessivamente il sistema del Codice degli appalti, non si risolva in una violazione delle norme in materia di equo compenso. Questione centrale, importante e delicata, se si pensa che anche l’ANAC, interrogata sul punto e confermato il rilievo della posizione, l’ha rimessa alla competenza della Cabina di Regia presso la Presidenza del Consiglio, “al fine di evitare pareri difformi e contenzioso” (ANAC, atto del Presidente del 27 giugno 2023).

L’equo compenso: finalità e contenuto

Con la legge 49/2023, si è inteso dare una risposta organica alla materia dell’equo compenso dei liberi professionisti, individuandolo come quello proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, nonché, come previsto dal primo comma dell’art. 1, conforme ai compensi previsti dai decreti ministeriali che, esercitando il mandato del legislatore, provvedono a dare contenuto concreto ai princìpi affermati dalla legge 49 /2023. Tra questi la nullità delle clausole contrarie ai dettàmi contenuti dall’art. 3 che prevedano un compenso non equo per qualsiasi delle ragioni previste dalla norma. Nullità che non investe l’intero contratto, che rimane valido ed efficace per il resto, operando soltanto a vantaggio del professionista ed è rilevabile d’ufficio (art. 3, c. 4, legge 49/2023, che pone tale regime di favore in deroga al regime generale altrimenti previsto dall’art. 1418 c.c.).

L’equo compenso e la pubblica amministrazione

Come previsto dal terzo comma dell’art. 2 della legge sull’equo compenso per i professionisti, le disposizioni in discorso si applicano anche alle prestazioni da questi rese in favore della pubblica amministrazione e delle società partecipate, con l’unica esclusione, prevista espressamente dalla norma, per le società veicolo di cartolarizzazione ed agli agenti della riscossione. Questi ultimi devono però garantire comunque, all’atto del conferimento dell’incarico professionale, l’adeguatezza del compenso pattuito rispetto all’importanza dell’opera richiesta e prestata.

La nuova formulazione normativa prevede un’applicazione della legge sull’equo compenso da parte della pubblica amministrazione integrale, con obblighi del tutto identici a quelli incombenti sui soggetti privati. Testualmente dal terzo comma dell’art. 2: “le disposizioni della presente legge si applicano altresì alle prestazioni rese dai professionisti in favore della pubblica amministrazione…”. Dato testuale che sostituisce il precedente contenuto, ambiguo, del DL 148/2017 conv. in legge 172/2017, che prevedeva più blandamente che la pubblica amministrazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto.

Corollario dell’applicazione pedissequa delle norme sull’equo compenso alla pubblica amministrazione, è la previsione del divieto di prestazioni d’opera intellettuale gratuite, disposto dal secondo comma dell’art. 8 del Codice appalti, che le tollera esclusivamente “in casi eccezionali e previa adeguata motivazione”. L’eccezionalità deve intendersi in maniera rigorosa e la motivazione richiesta deve essere puntuale e circostanziata, considerando che il divieto è espressione di per sé eccezionale di un principio generale che altrimenti consente la conclusione di contratti a titolo gratuito (art. 8, c. 1, D.Lgs. 36/2023), ed è conseguente all’affermazione, dettata sempre dal secondo comma dell’art. 8, che impone alla pubblica amministrazione di garantire comunque l’applicazione del principio dell’equo compenso.

Il contenuto obbligatorio

La natura promozionale e di tutela sottesa alla previsione dell’equo compenso, ne implica l’obbligatorietà della sua applicazione, pena l’inefficacia dei fini, fatale in assenza del carattere precettivo delle norme che ne regolano il contenuto e la portata. In tal senso, il quinto comma dell’art. 5 legge 49/2023 demanda agli ordini e collegi professionali il compito di adottare disposizioni deontologiche volte a sanzionare la violazione, da parte del professionista, dell’obbligo di convenire o di preventivare un compenso che sia giusto, equo e proporzionato alla prestazione richiesta e determinato in applicazione dei parametri previsti dai pertinenti decreti ministeriali. La previsione non confligge con l’abrogazione delle tariffe minime ed il loro divieto, considerando che laddove quelle esprimevano un valore fisso, predeterminato per legge e non necessariamente adeguato alla specificità e variabilità in concreto della prestazione professionale resa, i parametri rappresentano invece la formalizzazione di un principio generale di adeguatezza del compenso, che unitamente al connotato della dignità della sua quantificazione, si attaglia, volta per volta, con oggettiva flessibilità determinata dalle previsioni dei decreti che ne attuano l’applicazione concreta, alla quantità e qualità del lavoro svolto, ed al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale resa.

Le conseguenze rispetto alle previsioni del Codice appalti

L’obbligatorietà relativa della disciplina dell’equo compenso (laddove per relativa deve intendersi, correttamente, soltanto la circostanza che il quantum in concreto determinabile per la singola prestazione professionale può anche legittimamente variare, volta per volta, purché la sua individuazione avvenga sempre in applicazione delle previsioni recate dalla legge 49/2023), ha suscitato più di una riflessione in ordine alla esigenza, imprescindibile, di ponderare tale obbligatorietà con la disciplina del Codice degli appalti. Dato atto dell’applicazione pedissequa delle norme sull’equo compenso anche alla pubblica amministrazione, ergo, anche in occasione di appalti, è stato posto il problema del contemperamento tra i limiti imposti dalla legge 49/2023 e la previsione del codice che, ad esempio all’art. 41, c. 15, rimanda all’allegato I.13 al fine di stabilire le modalità di determinazione dei corrispettivi per le fasi progettuali da porre a base degli affidamenti dei servizi di ingegneria e architettura, statuendo che tali corrispettivi sono utilizzati dalle stazioni appaltanti e dagli enti concedenti ai fini dell’individuazione dell’importo da porre a base di gara dell’affidamento. Il problema nasce, secondo quanto rilevato anche dall’atto del Presidente dell’ANAC del 27 giugno 2023, investito della questione, dalla considerazione che il rinvio ai parametri è adesso diretto, non essendo più utilizzata la locuzione “criterio o base di riferimento” del vecchio codice dei contratti pubblici, cosicché, data l’obbligatorietà dell’applicazione dei parametri ai fini della individuazione dell’equo compenso “si porrebbe l’ulteriore difficoltà di comprendere quale possa essere il ribasso massimo che conduce a ritenere il compenso equo nell’ambito delle procedura di affidamento dei servizi di ingegneria e di architettura” (ANAC, atto del Presidente del 27 giugno 2023). La questione è di sicuro rilievo, tanto da indurre la stessa Autorità a rimetterla alla competente Cabina di Regia presso la Presidenza del Consiglio, “al fine di evitare pareri difformi e contenzioso”. Ciò perché l’Autorità ha indicato l’impossibilità di fornire indicazioni sulla percentuale legittima di ribasso, “in quanto sussiste il rischio di individuazione di una nuova soglia minima per i compensi diversa da quella per i compensi fissati dai decreti ministeriali per i professionisti iscritti agli ordini e collegi, con l’ulteriore possibile effetto di trasformare la gara in una gara a prezzo fisso”.

La ricerca di una soluzione complessa ma necessaria

La soluzione richiesta è senz’altro complessa, per il rilievo degli interessi in gioco: quello dell’efficienza dell’azione della PA, nello specifico perseguito attraverso la disciplina del Codice degli appalti pubblici; quello della garanzia dell’equo compenso per i professionisti, affermazione come più volte ricordato di rango costituzionale. Tuttavia, l’obiettivo della composizione di tensioni apparentemente contrapposte deve necessariamente essere perseguito e raggiunto, proprio in ragione dell’importanza dei diritti coinvolti. In attesa dell’espressione dell’organo a ciò deputato, individuato dall’ANAC nella Cabina di regia presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, è ragionevole prevedere che la soluzione possa passare attraverso l’art. 108 D.Lgs. 36/2023. Questo, infatti, contiene le regole di adeguata flessibilità per determinare la pubblica amministrazione nella scelta del proprio contraente attraverso i contratti d’appalto, facendo “salve le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative relative al prezzo di determinate forniture o alla remunerazione di servizi specifici”. Specificità tra le quali può essere verosimilmente inclusa la disciplina dell’equo compenso, ed alla luce della quale potrà essere individuata una soluzione di necessaria “flessibilità rigorosa”.

UIF – Le Pubbliche amministrazioni nel sistema di prevenzione del riciclaggio

L’UIF con il Quaderno dell’antiriciclaggio n. 19 del settembre 2022 evidenzia che le statistiche relative al flusso segnaletico riconducibile alla Pubblica Amministrazione evidenziano, dal 2007, solo 422 segnalazioni/comunicazioni.

Gli uffici delle Pubbliche amministrazioni sono chiamati a svolgere un importante ruolo nel sistema italiano di prevenzione del riciclaggio fin dal 1991, quando il decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143, convertito con legge 5 luglio 1991, n. 197, ha posto a loro carico, fra l’altro, obblighi di identificazione e di segnalazione di operazioni sospette. Attualmente i loro doveri in ambito antiriciclaggio sono individuati
dall’articolo 10 del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231.

Nonostante la previsione sia risalente, il contributo delle Pubbliche amministrazioni al contrasto del riciclaggio è sempre stato estremamente esiguo. Da un maggiore coinvolgimento degli uffici della Pubblica amministrazione nel sistema di prevenzione del riciclaggio, può derivare, invece, un significativo irrobustimento non solo dei meccanismi di tutela dell’economia dall’infiltrazione criminale ma anche della qualità stessa dell’azione amministrativa.

ll D.Lgs. n. 90/2017 ha infatti espunto la Pubblica Amministrazione dal novero dei destinatari degli obblighi ex art. 3, D.Lgs. n. 231/2007, ritagliando ai soggetti ricompresi all’interno dell’art. 1, comma 1, lettera hh), un ruolo specifico, definito dal successivo art. 10 che ne circoscrive, tra l’altro, l’ambito di intervento.
Si tratta, nel dettaglio:
• dei procedimenti finalizzati all’adozione di provvedimenti di autorizzazione o concessione;
• delle procedure di scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi secondo le disposizioni di cui al Codice dei contratti pubblici;
• dei procedimenti di concessione ed erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché attribuzioni di vantaggi economici di qualunque genere a persone fisiche ed enti pubblici e privati.

L’ambito oggettivo all’interno del quale è richiesta dal Legislatore la cooperazione attiva della PA appare quindi coerente con il rilievo formulato dal GAFI, evidentemente figlio del noto flusso comunicativo istituzionale che, a livello europeo, parte dalla base dei soggetti obbligati, viene filtrato dalle singole FIU per giungere alla Commissione UE e da lì indirizzato quale “di cui” dello stato dell’arte sul contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo a livello internazionale.

In buona sostanza, prima del 4 luglio 2017, la PA aveva fallito la propria missione in qualità di soggetto obbligato perché ontologicamente incompatibile con un assetto di uomini, mezzi e risorse da destinare a presidi di controllo interni dedicati specificamente al contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, a tacere poi di concetti non immediatamente mutuabili quale quello di “cliente”, estranei in termini fisiologici all’apparato amministrativo salvo rare eccezioni.

Ebbene, l’assetto post luglio 2017, su cui è intervenuto il provvedimento UIF del 23 aprile 2018, libera gli uffici della PA da obblighi di adeguata verifica, profilatura di rischio del cliente, monitoraggio del rapporto e conservazione dei dati, delle informazioni e dei documenti acquisiti, richiedendo “solo” che rispetto ai summenzionati procedimenti amministrativi sia adempiuto l’obbligo di comunicazione alla UIF di operazioni sospette di cui le PA vengano a conoscenza nell’esercizio della propria attività istituzionale.