Contributi previdenziali dovuti anche se si definisce la lite

Negli anni passati e in occasione delle precedenti definizioni delle liti pendenti, si è assistito a un cospicuo contenzioso inerente, in sintesi, agli effetti della definizione sul versante contributivo.
Stante l’assenza di una norma che disciplini la problematica esposta, si erano formati diversi orientamenti giurisprudenziali anche contrastanti (alcuni ritenevano che i contributi andassero pagati applicando le stesse percentuali per la definizione della lite, altri che la vertenza contributiva proseguisse, altri che, addirittura, la pretesa contributiva si estinguesse a seguito della definizione).

Ora, il quadro giurisprudenziale specie di legittimità è abbastanza chiaro: sussiste un assoluto doppio binario tra lite fiscale e contributiva essendo a tal fine irrilevante la coincidenza tra base imponibile fiscale e contributiva.
Quanto esposto vale per la definizione delle liti pendenti di cui alla L. 197/2022.

Poco importa, quindi, che i contributi dovuti alla Gestione separata e alle Gestioni Artigiani e Commercianti INPS siano liquidati nel quadro RR del modello REDDITI.
Si è infatti sostenuto che la definizione della lite fiscale “ha natura deflattiva esclusivamente del contenzioso fiscale e che nel testo dell’art. 39 cit. [si allude all’art. 39 comma 12 del DL 98/2011, ma lo stesso vale per la L. 197/2022ndr] non si rinviene alcun elemento che permetta di ritenere che “la definizione concordata del giudizio tributario estenda gli effetti sulla rideterminazione totale o parziale del presupposto impositivo accertato dall’Agenzia ai fini extrafiscali, quali i contributi previdenziali calcolati a percentuale sul reddito”; pertanto, “la tesi della definitività dell’accertamento reddituale ai fini contributivi sulla base del condono fiscale, per come affermata dalla Corte fiorentina, si rivela in ogni caso non conforme ai principi su enunciati e non può che essere caducata” (Cass. 25 agosto 2020 n. 17652cfr. anche Cass. 18 settembre 2019 n. 23301).

Quanto detto, a maggior ragione, vale per i contributi dovuti alle Casse di previdenza professionale.
In sostanza, l’INPS, entro il termine di prescrizione dei cinque anni notificherà al contribuente l’avviso di addebito ai sensi dell’art. 30 del DL 78/2010, richiedendo i maggiori contributi, le sanzioni e gli interessi.

Naturalmente, potrà essere contestato sotto ogni profilo (incluso il merito) dinanzi al giudice ordinario.
Bisogna prestare attenzione al fatto che secondo un orientamento la prescrizione contributiva viene interrotta dalla notifica dell’accertamento fiscale, che contiene l’indicazione dei maggiori contributi (Cass. 8 settembre 2015 n. 17769).
Ciò è coerente con l’attuale assetto normativo: giusto o sbagliato che sia, le imposte e i contributi seguono strade differenti nonostante siano soggetti alla medesima base imponibile.

ATTENZIONE ALL’INTERRUZIONE DELLA PRESCRIZIONE

Solo nel caso della mediazione (art. 17-bis del DLgs. 546/92), dell’acquiescenza (art. 15 del DLgs. 218/97) e dell’accertamento con adesione (art. 2 del DLgs. 218/97) c’è un vero e proprio effetto contributivo della definizione fiscale, previsto dalla legge. Infatti, gli istituti menzionati si perfezionano solo se, oltre alle imposte, si pagano anche i contributi INPS indicando nel modello F24 le apposite causali contributo.
Sempre solo per queste tre forme di definizione, sui maggiori contributi non sono dovuti sanzioni e interessi.

Per la conciliazione giudiziale (all’evidenza “dimenticata” dal legislatore) l’INPS recepisce di norma l’accordo tra contribuente e Agenzia delle Entrate, ma rimangono sanzioni e interessi (circ. INPS 2 agosto 2016 n. 140).